Fenomenologia del “gufo e rosicone”
Fenomenologia del “gufo e rosicone”. L’invidia che arde e autodistrugge.
L’invidia è una confessione di inferiorità
“Honoré de Balzac”
8 Luglio 2016: ho appena passato una notte a sudare sotto l’effetto della tachipirina. Dopo una notte di sonno frammentato e tormentato di incubi dei quali non ricordo nulla, mi sveglio e il termometro dice “38.5” – accidenti! Ma com’è possibile? – è praticamente uguale alla temperatura esterna. Fiaccato da dolori alle giunture, apro le finestre e un raggio di sole cocente mi brucia la fronte. Penso “maledetti tutti voi che siete al mare, possiate tutti crepare di caldo in casa come me”, fermo poi pentirmi amaramente e fare ammenda per la bestialità appena pensata. L’ammenda è consistita nel lavarmi, noto gesto purificatorio, non solo dai germi, ma anche dai sensi di colpa. Pilato docet.
Questo divertente (non per me) siparietto, mi ha ricordato che da tempo volevo parlarvi di invidia, un frequentissimo quanto detestabile stato d’animo a valenza sociale, odiato sia dalla collettività che dallo stesso individuo che lo prova, condannato dalla religione e dal senso comune. A pensarci bene non credo esista un sentimento più bistrattato di questo, eppure l’evoluzione ce lo continua a riproporre con insistenza, potrebbe quindi essere importante ai fini della nostra sopravvivenza, oppure vestigia del passato sulla via del tramonto.
L’invidia è purtroppo frequentissima, come la vergogna, ma apparentemente rara, perché nascosta e disapprovata da tutti, inoltre molto spesso non viene riconosciuta da chi la prova, confusa con la gelosia, la semplice rabbia , o un costruito senso di ingiustizia. Dico “purtroppo” perché infligge una gran dose di sofferenza, sia in prima analisi per il “rosicare” di renziana memoria, sia per motivi ulteriori, come vedremo dalla successiva analisi.
Giotto, nella cappella degli Scrovegni a Padova, rappresenta l’invidia come una vecchia con vesti lacere, dalla cui bocca esce una serpe che si ritorce contro lei stessa accecandola. È infatti vero che pur volendo ferire l’invidiato, è l’invidioso ad alimentare la sua sofferenza e a “non vedere” la dura realtà “io sono, per merito, inferiore a te”. La vecchia ha anche grandi orecchie, metafora del porre attenzione alle malelingue e far prosperare il pettegolezzo (maligno), stringe avidamente un sacco, simbolo della sua avarizia, e ha le gambe avvolte dalle fiamme, ad indicare il bruciare del desiderio delle altrui cose. Inoltre dalla sua testa spuntano corna, delineandone quindi la natura diabolica.
Basterebbe questo meraviglioso ritratto a rendere a sufficienza la portata di questo stato d’animo ma facciamo un passo analitico maggiore, facendomi aiutare dalle riflessioni del professor Cristiano Castelfranchi.
L’invidia, per manifestarsi, ha bisogno di vari ingredienti, come le ricette di cucina:
io ritengo importante qualcosa, che sia un oggetto, un abilità o un riconoscimento (es. soldi, talento calcistico, fortuna negli affari o nella professione) e mi ritengo privo di questa cosa, NB: è estremamente chiaro che ci posso aver provato con tutte le mie forze senza riuscirci;
un’altra persona è invece in possesso di questa cosa o la può avere. Come dice Aristotele, nella “Retorica”, l’invidia si esercita nei confronti dei propri pari, simili e prossimi a noi. Difficilmente invidieremo Einstein, Elon Musk o Zlatan Ibrahimovic, più probabilmente invidieremo nostri compagni di classe, nostri amici e perché no, pure i nostri fratelli!
Risultato: io ritengo di essere inferiore a questa persona e non ritengo di avere il potere di eguagliarlo (ci ho provato senza riuscirci)
Ciò già provoca un problema di notevole entità: in partenza rosichiamo, ammettendo già in termini la nostra inferiorità (“io non posso, tu puoi”), che sia per merito suo (“ha lavorato sodo”), per demerito nostro (“non ho fatto abbastanza”) o per colpa altrui (“non ho avuto gli stessi strumenti che ha avuto lui”). In seconda analisi compromettiamo potenzialmente un rapporto di vicinanza affettiva trovandoci nella paradossale situazione del volere il male di persone a cui vogliamo bene. La ciliegina sulla torta è l’aspra condanna che subiamo se tale stato d’animo si rende palese, in quanto l’invidia è riconosciuta come emozione che può muovere ad atti dannosi verso il prossimo e soprattutto perché è disposta a calpestare il merito altrui pur di non perdere. La seconda ciliegina è lo stigma sociale verso l’ammissione di impotenza, infatti la società normalmente condanna chi si ritiene incapace di qualcosa. Per finire è probabile che noi stessi condivideremo l’ignobiltà di tale stato d’animo e ci sentiremo in colpa e ci vergogneremo (moltissimo), e state certi che non ci aiuterà a darci da fare per ottenere quello che vogliamo.
Ma allora a cosa cavolo serve l’invidia? A stare male?
Non è finita qui…
Purtroppo, il fatto che la persona sia un pari, un simile o probabilmente un nostro parente o amico fa sì che si riattivi frequentemente la sofferenza multipla di cui sopra. Non ci si può mettere la famosa pietra sopra. Così inizio a sperare che ti vada male qualcosa così “scendi al mio livello”. E qui l’invidia manifesta quella che secondo Castelfranchi è la sua principale funzione, che è una funzione prettamente sociale:
NON ESSERE INFERIORE: non ci riesco… vabbè, sarà difficile… tu ci riesci… vabbè, è più bravo di me, faccio finta che non mi interessi, cambio obiettivi… ti vedo spesso… non va più tanto bene, ho davanti a me continuamente il fallimento e non ci posso fare nulla perché sono inferiore! L’unica è che qualcosa gli vada male e torni al mio livello!
In fin dei conti siamo tutti potenziali vittime di questo diabolico stato d’animo, ma se ci pensiamo bene, un estremo senso di inferiorità ha un forte potere demotivante per l’individuo, e l’invidia serve appunto a salvaguardare l’autostima “a tutti i costi”, così da non buttarsi troppo giù e ripartire. Visto da questo punto di vista mi viene da provare una certa compassione per la serpe… e a voi?
Torneremo a parlare di invidia in qualche articolo successivo, dove analizzeremo le differenze con stati d’animo simili, come difendersi dagli invidiosi, e come aiutare gli invidiosi ad invidiare meno.
Alla prossima!
Dott. Dario Pappalardo
Bibliografia
Castelfranchi, C. (1998). Che figura: emozioni ed immagine sociale. Il Mulino, Bologna.
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